Breve sintesi storica

da Antonio Trigona

 

Nel 1130, notte di Natale, con una fastosa cerimonia Re Ruggero II sancì a Palermo la nascita del Regno di Sicilia. Tutto il Sud fu unificato come nazione indipendente con capitale Palermo. Quel 25 dicembre è una data simbolica: Ruggero II si presentava come il redentore di tutte le popolazioni del Sud della penisola dagli Arabi, dai Bizantini e dai Longobardi e nello stesso tempo annunciava al mondo la nascita di un regno cristiano. Questa unità durò più di 700 anni fino al 1860, quando, a causa dell’invasione piemontese, le popolazioni duosiciliane perdettero la propria identità nazionale con la forzata unione con gli altri popoli della penisola. Il governo normanno durò fino al 1194. Poi vi fu quello degli Svevi, il cui più illustre rappresentante fu Federico II. Con l’avvento degli Angioini nel 1266 la capitale del Regno di Sicilia fu portata a Napoli. A seguito dei “vespri siciliani” del 1282 la Sicilia fu occupata dagli Aragonesi e divenne Regno di Trinacria. Nel 1443 gli Angioini dovettero cedere agli Aragonesi anche la parte continentale del Regno: le Due Sicilie furono riunite con Alfonso il Magnanimo (Regnum utriusque Siciliae). Nel 1503 il Regno fu incorporato dalla Spagna, come vicereame autonomo; così come avvenne nel breve periodo austriaco, che va dal 1707 al 1734, anno in cui tutta la Nazione diventò nuovamente indipendente con i Borbone. In questa breve sintesi tralasceremo i pur importanti avvenimenti del periodo relativo ai primi Borbone: Carlo, Ferdinando I e Francesco I. Ricordiamo comunque che nel 1815 Ferdinando I unificò il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia in un unico stato che fu chiamato Regno delle Due Sicilie. Fondamentali per la vera ricostruzione storica dell’unità d’Italia sono il periodo di regno di Ferdinando II, e quello del giovane Francesco II. Sui Borbone sono stati raccontati moltissimi aneddoti, per lo più tendenti solo a denigrarli allo scopo di ingannare l’opinione pubblica e di giustificare l’aggressione al Regno delle Due Sicilie. Indubbiamente la nazione duosiciliana, contrariamente a quello che ancora oggi si continua a leggere nei libri di storia, acquistata nuovamente la sua indipendenza, ebbe con i Borbone il suo periodo più splendido e più significativo. Eppure la storia è stata a tal punto mistificata che ancora oggi “borbonico” è sinonimo di inefficienza e di retrivo. Molti scrittori, inoltre, hanno raffigurato la situazione dei Territori Duosiciliani “dopo” che vi era stata la devastazione piemontese, attribuendo all’amministrazione borbonica le pessime condizioni sociali ed economiche in cui erano state ridotte le Due Sicilie a causa dell’aggressione savoiarda. Il fatto più spregevole è che tali menzogne, pervicacemente avallate da uno Stato che si definisce “italiano”, cioè di tutti i popoli della penisola, sono insegnate come storia ufficiale ai nostri figli, i quali si formano in un culto che, non solo non è il nostro, ma che è stato creato proprio contro di noi Duosiciliani. Ma la storia, come si vedrà in seguito, è soprattutto narrazione di avvenimenti, che nella loro materiale concretezza non possono essere più di tanto mistificati o nascosti.

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Situazione sociale ed economica delle due Sicilie

Il Reame aveva praticamente due amministrazioni: quella delle province napoletane che comprendeva tutte le regioni continentali dagli Abruzzi alle Calabrie e quella siciliana. Nel 1860 la popolazione del Regno delle Due Sicilie era poco più di 9 milioni di abitanti. Il Regno in quell’anno poteva sicuramente essere considerato in campo economico al primo posto in Italia ed al terzo in Europa. La moneta circolante nelle Due Sicilie era pari a 443,2 milioni di lire, risultante oltre il doppio di tutte le altre monete circolanti nella penisola italiana. Per fare un paragone si può considerare che il Piemonte possedeva solo 20 milioni di lire. Questo era stato il risultato di previdenti leggi che avevano regolato le importazioni e le esportazioni proprio con lo scopo di favorire la nascita dell’industria, dosando opportunamente i dazi doganali e le misure fiscali. Infatti già dal 1818 l’industria tessile (seta, cotone e lana) e quella metalmeccanica erano i due principali settori trainanti dell’economia duosiciliana, tanto che molti stranieri trovarono conveniente investire nel Regno. La politica industriale era stata insomma lungimirante e coerente, anticipando di un secolo in Italia la formula dell’iniziativa pubblica nell’industria senza peraltro privilegiare le industrie statali che erano sempre in concorrenza con le private. Lo sviluppo industriale del Regno delle Due Sicilie, cioè il trasferimento di risorse dal settore agricolo al settore industriale; non avvenne infatti per opera di privati come negli altri Stati (grossi proprietari terrieri, come in Inghilterra, o Banche, come in Germania), ma per diretto intervento dello Stato, che tuttavia venne anche coadiuvato da imprenditori privati con capitali agrari, commerciali, bancari e di paesi esteri. Per quanto riguarda il territorio continentale, nel 1860 gli addetti alle grandi industrie erano 210.000 in quasi 5.000 opifici e costituivano circa il 7% della popolazione attiva. Il capitale investito nella sola industria si può valutare intorno ai cento milioni di ducati (1 ducato: 4,25 lire dell’epoca) e dava utili che raggiungevano in molti casi il 15 o 20%, con una media di circa l’8%. Il reddito pro-capite era pressochè uguale a quello medio italiano, per un totale complessivo di 275 milioni di ducati all’anno. Per quanto riguarda la vita economica bisogna dire che i prezzi erano estremamente stabili ed il Governo era sempre attento a garantire sia un’attività produttiva redditizia sia paghe adeguate al contesto socioeconomico. Rarissime erano le emigrazioni, poichè la disoccupazione era molto limitata. Il settore agricolo, aumentata del 120% la sua produttività negli ultimi 40 anni, dava una eccedenza di risorse alimentari che erano così disponibili sia per la manodopera dell’industria sia per l’aumento della popolazione. A proposito di agricoltura è necessario dire che è una favola quello di un Sud latifondista con i Borbone. I latifondi al Sud si formarono con la venuta dei Piemontesi, che svendettero ai loro collaborazionisti tutte le terre demaniali rapinate ai contadini che ne avevano l’uso civico da centinaia di anni. Il Regno, in quegli anni, aveva dunque una forte economia, con una stabile e solida moneta, ma non aveva un forte esercito. Lo Stato delle Due Sicilie, infatti, non aveva mai avuto mire espansionistiche per cui le cure per l’Armata erano per lo più indirizzate so1o al suo mantenimento, con pochissimo addestramento di guerra. Anche perchè, a causa delle continue sommosse carbonare, le forze armate erano state spesso impiegate per l’ordine interno e venivano distolte dal necessario addestramento. Le forze veramente operative e seriamente addestrate erano costituite da tre reggimenti svizzeri, che però proprio nel 1860 furono sciolti. Ottima era invece la flotta navale militare, senza dubbio la prima in Italia e la terza in Europa. La Marina Mercantile duosiciliana, la seconda in Europa con oltre 9.800 bastimenti, aveva avuto un forte sviluppo perchè aveva dovuto soddisfare le crescenti esigenze dei trasporti commerciali, che dai registri doganali dell’epoca erano valutati per circa 500.000.000 di ducati tra import ed export. Nel Regno esistevano allora circa quaranta cantieri navali di una certa rilevanza. L’amministrazione dello Stato, dopo i malanni apportati dall’occupazione francese (nel periodo dal 1799 al 1815), era in via di evoluzione, ma in sostanza era efficiente e funzionale. La giustizia era proprio borbonica, cioè era la migliore in assoluto in Italia, ed i suoi codici erano di riferimento per tutta la legislazione della penisola italiana e anche d’Europa. In questo quadro è necessario anche illustrare, sia pure brevemente, la situazione delle varie regioni, iniziando con la CALABRIA, che è veramente un esempio emblematico. Prima dell’unità d’Italia era la più ricca regione della penisola italiana, ora è la più povera d’Europa. In Calabria l’industrializzazione iniziò con lo sfruttamento delle miniere di ferro e di grafite che vi erano state rinvenute. Per questo tu fondato il Real Stabilimento di Mongiana, dove su un’area coperta di 12.000 metri quadri furono costituiti una fonderia e un grandioso stabilimento siderurgico, potenziato con due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson e sei raffmerie. Accanto vi era anche una fabbrica d’armi su un’area coperta di circa 4.000 metri quadri. La produzione della ghisa e del ferro era di eccellente qualità e da essi si ricavavano trafilati, laminati e acciai da cementazione. Alla fine del Regno la Calabria era, insomma, fortemente industrializzata e negli stabilimenti di Mongiana, di Pazzano, di Fuscaldo, di Cardinale e di Bigonci vi lavoravano circa 2.500 operai, numero veramente notevole per quell’epoca. Altre attività importanti in Calabria, per antica tradizione, oltre alla produzione agricola, erano quelle tessili, in cui primeggiava la produzione della seta, gli arsenali ed i numerosi cantieri navali. I calabresi impiegati nelle industrie importanti erano allora poco più di 31.000. Nelle PUGLIE ed in BASILICATA vi erano importantissimi opifici di lana, di cotone e di lino, la cui produzione veniva esportata in tutto il mondo. Vi erano anche centinaia di filande di cui molte motorizzate. Famose anche le fabbriche di presse olearie e di macchine agricole di Foggia e di Bari. Non meno importanti erano le aziende agricole e chimiche, le numerosissime flottiglie per la pesca ed i cantieri navali. A Barletta vi era un’efficientissima salina che riforniva tutta l’Europa. Centro di riferimento, per tutto il Regno, era l’attivissima Borsa di Commercio di Bari. Negli ABRUZZI e nel MOLISE era eccellente e notissima la produzione di utensili, di lame di acciaio, rasoi e forbici. Vi erano anche molti opifici tessili e per la produzione della carta. Notevoli, infine, erano gli a1levamenti bovini e caprini. La CAMPANIA del 1860 era la regione più industrializzata d’Europa, particolarmente l’area napoletana, lungo l’asse Caserta – Salerno. In essa vi erano sia il grandioso Opificio di Pietrarsa dove si producevano motori a vapore, locomotive, carrozze ferroviarie e binari, sia i famosi cantieri navali tra i migliori d’Europa, fabbriche d’armi e di utensileria, aziende chimiche – farmaceutiche e per la produzione della carta, del vetro, concia e pelli, alimentari, ceramiche e materiali per edilizia. Prestigiosa era la produzione della seta di S. Leucio. Numerose anche le fabbriche di strumenti tecnici, orologi, bilance, e insomma tutta una miriade di fabbriche minori, nei più svariati campi di attività, diffuse geograficamente in tutto il territorio. In SICILIA, infine, il reddito si basava, oltre che sulla pesca e sui cantieri navali, sull’esportazione di zolfo, olio d’oliva, agrumi, sale marino e vino. Le principali correnti di traffico erano dirette verso l’Inghilterra (40%), verso gli Stati Uniti (con un terzo della produzione di agrumi) e verso gli altri paesi europei. La Sicilia per questi suoi commerci aveva costantemente un saldo attivo.

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Le più importanti realizzazioni

Lo Stato delle Due Sicilie tu il primo al mondo a far navigare per mare una nave a vapore. La nave, con caldaia inglese, era il Ferdinando I, varato il 24 giugno 1818. In Inghilterra il primo battello a vapore per la navigazione sui mari fu varato nel 1822: il rimorchiatore Monkey. Da ricordare la prima realizzazione al mondo dei ponti in ferro ad impalcato sospeso, il “Ferdinandeo”, che fu completato nell’aprile del 1832 sul Garigliano, e quello sul Calore, il “Cristino”, inaugurato il 5 aprile del 1835.

Ponte Cristino

Il 4 ottobre 1839 fu inaugurata la prima ferrovia italiana con il tratto Napoli – Portici, di circa 9 Km. Dopo questo tratto furono iniziati i lavori per collegare la capitale con Bari, Brindisi e Reggio Calabria. Nel 1840 tu inaugurato il grandioso complesso industriale del “Reale Opificio di Pietrarsa” con oltre mille addetti, all’epoca il primo e l’unico in Italia. L’Opificio ebbe vasta risonanza in Europa. Esso fu visitato dallo zar Nicola I, che lo prese d’esempio per la costruzione del complesso ferroviario di Kronstadt. Per fare un paragone, il complesso della Breda nacque 44 anni più tardi, quello della Fiat 57 anni dopo. Sorsero in tutto il Regno anche diverse e numerose scuole di “Arti e mestieri” per la formazione del personale. In quell’anno Napoli, dopo Londra e Parigi, fu la terza capitale in Europa ad avere le strade illuminate con 350 lampade a gas. Da ricordare le colossali opere di bonifica, delle paludi Sipontine (Manfredonia), di quelle di Brindisi, del bacino inferiore del Volturno, dei Regi Lagni e del Simeto, opere che resero fertili tutte quelle terre, distribuite poi gratuitamente. Sorse nel 1841 ad Ercolano l’Osservatorio Vesuviano, la prima struttura scientifica nel mondo realizzata per lo studio dei fenomeni vulcanici. Nello stesso anno, venne installato a Nisida il primo faro lenticolare a luce costante. Tali fari furono installati negli anni successivi su tutte le coste del regno. A Castellammare fu varata il 24 ottobre 1843 la prima nave da guerra a vapore, la pirofregata a ruote Ercole, progettata e costruita interamente nel Regno. Da ricordare che le navi da guerra duosiciliane furono le prime ad entrare nei porti statunitensi e nell’America del Sud, dove facevano capo le crociere di addestramento per gli allievi dell’Armata di Mare. A Napoli, il 20 settembre 1845, fu organizzato il VII Congresso Scientifico Italiano, a cui parteciparono ben 1.408 scienziati. Proprio durante il convegno, il giorno 28 fu inaugurato l’Osservatorio Meteorologico alle falde del Vesuvio. Nel maggio del 1847 fu varata, per la prima volta in Italia, una nave a propulsione ad elica, la Giglio delle Onde. Il 14 novembre, si ebbe il varo della pirofregata a ruote Ettore Fieramosca che era la prima nave progettata e fornita con macchina a vapore costruita interamente in Italia dal Real Opificio di Pietrarsa. A Capodimonte il 25 giugno 1852 Napoli tu la prima città d’Italia ad organizzare un esperimento di illuminazione elettrica. L’esperimento fu abbastanza rilevante per l’epoca, tenuto conto che la lampada di Edison fece la sua comparsa solo nel 1877 e che la prima lampada a filamento fu realizzata due anni dopo. Lo stesso anno fu inaugurato il nuovo bacino di raddobbo in muratura (bacino di carenaggio) nell’arsenale di Napoli, il primo del genere ad essere realizzato nella penisola italiana. Nel marzo del 1855 Napoli fu collegata attraverso una linea telegrafica con Roma, Parigi e Londra. Alla Mostra di Parigi del 1856 la tecnologia e la capacità dell’economia duosiciliane furono riconosciute unanimemente come le migliori in assoluto, subito dopo Francia ed Inghilterra. Molto successo avevano avuto anche i preziosi manufatti dell’oreficeria, dell’argenteria e del corallo prodotti da più di duecento aziende con l’impiego di circa 5.000 addetti. Furono apprezzatissimi anche gli strumenti musicali, soprattutto quelli a corda prodotti nelle Puglie. Si riconfermò, infine, lo straordinario successo che aveva la produzione di guanti e del cuoio per selleria delle manifatture napoletane. Il 18 gennaio 1860 fu varata a Castellammare di Stabia la nuova fregata ad elica Borbone di 3.444 tonnellate. Era la prima nave militare ad elica ed in ferro della flotta duosiciliana ed era anche la più potente. È significativo, a questo punto, fare una semplice riflessione e cioè che se nelle Due Sicilie erano state realizzate tante importanti opere, che avevano posto il Regno ai vertici degli Stati più progrediti del mondo, queste smentiscono con i fatti le affermazioni di arretratezza delle Due Sicilie. Se così non fosse, perchè queste opere non erano state realizzate prima dal Piemonte o dagli altri Stati preunitari? La complessità di queste opere, infatti, presuppone la presenza di scuole di alto livello, di valenti tecnici, di grandi industrie e di una sana economia e finanza, per cui se ne deve dedurre che, negli altri Stati preunitari, tutti questi fattori evidentemente non esistevano, o almeno non in tale misura. Tanto per fare un esempio, come prova di questa situazione di arretratezza del Nord, a Milano il Politecnico fu fondato solo nel 1863 ed il primo ingegnere si laureò nel 1870.

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Le cause della fine del Regno delle due Sicilie

È necessario innanzitutto precisare che il “risorgimento” italiano, nei riguardi del Regno delle Due Sicilie, è stato ed è un grande falso storico oltre che un grandissimo crimine. Il cosiddetto “risorgimento” fu una martellante propaganda di guerra e rappresenta il classico esempio che la storia viene sempre scritta dal vincitore. Esso non è stato in realtà che un capitolo della storia dell’imperialismo inglese. La mistica risorgimentale ci ha abituato a considerare Cavour come un grande statista, un genio della politica. In realtà la maggior parte delle sue decisioni non furono altro che esecuzioni dei “suggerimenti” che venivano orchestrati da Londra. La politica imperiale inglese si è sempre basata su due fattori cardini: il mantenimento di una grande potenza navale (the sllent power of sea) e l’alimentazione di disordini all’interno degli altri Stati, che venivano così distolti dalla politica estera. L’Inghilterra, per quanto riguarda in particolare il Mediterraneo, perseguì una sua complessa strategia politica che si sviluppò attraverso varie fasi. Iniziò con l’impossessamento di Gibilterra e, nel 1800, di Malta, che apparteneva alle Due Sicilie, approfittando dei disordini causati dalle guerre di Napoleone. Poi, intorno al 1850, in previsione dell’apertura del canale di Suez, per essa divenne vitale possedere il dominio dei Mediterraneo per potersi collegare facilmente con le sue colonie. Per questo i suoi obiettivi principali furono l’eliminazione della Russia dal Mediterraneo, contro la quale scatenò la vittoriosa guerra di Crimea nel 1853, e il ridimensionamento dell’influenza politica della Francia nel Mediterraneo. Il fattore determinante che spinse l’Inghilterra a dare inizio alle modifiche dell’assetto politico della penisola italiana furono gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo, che aveva iniziato a far navigare la sua flotta nel Mediterraneo, avendo come base di appoggio i porti delle Due Sicilie. La Francia, a sua volta, voleva rafforzare la sua influenza sulla penisola italiana, sia con un suo protettorato sullo Stato Pontificio, sia con un suo progetto di mettere un principe francese nelle Due Sicilie. Per raggiungere questi obiettivi le due potenze si servirono del piccolo Stato savoiardo che, non avendo risorse economiche e militari per fare le sue guerre, dovette vendere alla Francia Nizza e la Savoia, ed era in procinto di vendere anche la Sardegna se non fosse stato fermato dall’Inghilterra che temeva un più forte dominio della Francia nel bacino mediterraneo. In Piemonte, infatti, il sistema sociale ed economico era ben povera cosa. Vi erano solo alcune Casse di risparmio e le istituzioni più attive erano i Monti di Pietà. Insomma esistevano solo delle piccole banche e banchieri privati, generalmente d’origine straniera, che assicuravano il cambio delle monete al ridotto mercato piemontese. In Lombardia non c’era alcuna banca di emissione e le attività commerciali riuscivano ad andare avanti solo perché operava la banca austriaca. E tutto questo già da solo dovrebbe rendere evidente che prima dell’invasione del Sud, al nord non potevano esserci vere industrie, nè vi poteva essere un grande commercio, nè i suoi abitanti erano ricchi ed evoluti, come afferma la storiografia ufficiale. Per il Piemonte, dunque, il problema più urgente era quello di evitare il collasso economico, dato il suo disastroso bilancio, e l’unico modo per venirne fuori era quello offertogli da Inghilterra e Francia che gli promettevano il loro appoggio per l’annessione dei prosperi e ricchi territori delle Due Sicilie e degli altri piccoli Stati della penisola italiana. Il mezzo con cui l’Inghilterra diede esecuzione a questo disegno fu innanzitutto la propaganda delle idee sul nazionalismo dei popoli e critiche sul “dispotismo oppressivo” dei governi di Austria, Russia e Due Sicilie. A proposito di “Nazione”, bisogna dire che si tratta di un concetto in termini giuridico-politici elaborato a partire dalla Rivoluzione Francese e sviluppatosi soprattutto nell’800. Questo concetto è stato un’autentica invenzione di un’ideologia molto coinvolgente ed emotiva che è servita, e serve ancora, per tenere insieme le parti e gli interessi di uno Stato. In tal modo si preparavano psicologicamente le masse a “giustificare” le sommosse popolari poi artatamente sollevate da sovversivi prezzolati, i quali istigavano anche ingenui idealisti, suggestionati da idee libertarie. Quando poi questi moti scoppiavano, si predicava il principio del “non intervento”, spacciandole per “faccende interne” di uno Stato. Quelli che furono chiamati “moti liberali” venivano fatti scoppiare continuamente ad opera delle sette massoniche, che raggiungevano così numerosi scopi: la dimostrazione concreta che i governi erano oppressivi e che il popolo “spontaneamente” si ribellava al dispotismo. Inoltre, queste sommosse, facendo scatenare la necessaria reazione di quei governi, aggravavano e rendevano verosimili le menzogne propagandate. Per quanto riguarda le Due Sicilie i moti più gravi furono quelli del 1820 e del 1848, a cui vanno aggiunti gli episodi degli attentati del 17 dicembre 1856 (scoppio deposito polveri a Napoli con 17 morti) e del 4 gennaio 1857 (nel porto di Napoli saltò in aria la fregata Carlo III con 38 morti), quello del 25 giugno 1857 con lo sbarco di Pisacane e poi le rivolte di Palermo precedenti lo sbarco dì Garibaldi. La regia di queste azioni era del Mazzini collegato direttamente con Londra, il cui governo aveva affidato anche al Cavour l’incarico di far scoppiare sommosse in tutti gli altri Stati italiani, con l’evidente scopo di legittimare l’intervento del Piemonte per sedare i “disordini”. Molti furono i disordini causati, tra l’altro, coll’invio di carabinieri in borghese. Nel frattempo, in preparazione allo sbarco del Garibaldi, erano stati formati nelle Due Sicilie alcuni centri sovversivi, che assoldavano molti delinquenti per le sommosse e corrompevano alte personalità duosiciliane per agevolare l’avanzata del pirata.

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Le vicende garibaldine e l’invasione piemontese

Il Garibaldi era di corporatura bassa, alto 1,65, ed aveva le gambe arcuate. Era pieno di reumatismi e per salire a cavallo occorreva che due persone lo sollevassero. Portava i capelli lunghi perché, avendo violentato una ragazza, questa gli aveva staccato un orecchio con un morso. Era un avventuriero che nel 1835 si era rifugiato in Brasile, dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere. Fra i 28 e i 40 anni visse come un corsaro assaltando navi spagnole nel mare del Rio Grande do Sul al servizio degli inglesi che miravano ad accaparrarsi il commercio in quelle aree. In Sud America non è mai stato considerato un eroe, ma un delinquente della peggior specie. Per la spedizione dei mille fu finanziato dagli Inglesi con denaro rapinato ai turchi, equivalente oggi a molti milioni di dollari. In una lettera, Vittorio Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del nizzardo, proprio dopo “l’incontro di Teano”: “… come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi sebbene, – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile nè così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”. SBARCO DI MARSALA: fu di proposito “visto” in ritardo dalla marina duesiciliana, i cui capi erano già passati ai piemontesi, e fu protetto dalla flotta inglese, che con le sue evoluzioni impedì ogni eventuale offesa. Tra i famosi “mille”, che lo stesso Garibaldi il giorno 5 dicembre 1861 a Torino li definì “Tutti, generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto”, sbarcarono in Sicilia, francesi, svizzeri, inglesi, indiani, polacchi, russi e soprattutto ungheresi, tanto che tu costituita una legione ungherese utilizzata per le repressioni più feroci. Al seguito di questa vera e propria feccia umana, sbarcarono altri 22.000 soldati piemontesi appositamente dichiarati “congedati o disertori”. CALATAFIMI: contrariamente a quanto viene detto nei libri di storia, il Garibaldi fu messo in fuga il giorno 15 maggio dal maggiore Sforza, comandante dell’ 8 Cacciatori, con sole quattro compagnie. Mentre inseguiva le orde del Garibaldi, lo Sforza ricevette dal generale Landi l’ordine incomprensibile di ritirarsi. Il comportamento del Landi risultò comprensibilissimo quando si scoprì che aveva ricevuto dagli emissari garibaldini una fede di credito di 14.000 ducati come prezzo del suo tradimento. Landi qualche mese più tardi morì di un colpo apoplettico quando si accorse che la fede di credito era falsa: aveva infatti un valore di soli 14 ducati. PALERMO: il Garibaldi, il 27 maggio, si rifugiò in Palermo praticamente indisturbato dai 16.000 soldati duosiciliani che il generale Lanza aveva dato ordine di tenere chiusi nelle fortezze. Il filibustiere così poté saccheggiare al Banco delle Due Sicilie cinque milioni di ducati ed installarsi nel palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. In Palermo i garibaldini si abbandonarono a violenze e saccheggi di ogni genere. A tarda sera del 28 arrivarono, però, le fedeli truppe duosiciliane comandate dal generale svizzero Von Meckel. Queste truppe, che erano quelle trattenute dal generale Landi, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che praticamente non aveva più vie di scampo, arrivarono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché … era stato fatto un armistizio, che in realtà non era mai stato chiesto. L’8 giugno tutte le truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per imbarcarsi, tra lo stupore e la paura della popolazione che non riusciva a capire come un esercito così numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un caporale dell’8° di linea che, al passaggio del Lanza a cavallo, uscì dalle file e gli gridò “Eccellé, o’ vvi quante simme. E ce n ‘aimma ‘i accussì ?”. Ed il Lanza gli rispose “Va via, ubriaco”. Lanza, appena giunse a Napoli, fu confinato ad Ischia per essere processato. I garibaldini nella loro avanzata in Sicilia compirono efferati delitti. Esemplare e notissimo quello di Bronte, dove “l’eroe” Nino Bixio fece fucilare quasi un centinaio di contadini che, proprio in nome del Garibaldi, avevano osato occupare alcune terre di proprietà inglese. MILAZZO:11 giorno 20 luglio vi fu una cruenta battaglia a Milazzo, dove 2.000 dei nostri valorosissimi soldati, condotti dal colonnello Bosco, sgominarono circa 10.000 garibaldini. Lo stesso Garibaldi accerchiato dagli ussari duosiciliani rischiò di morire. La battaglia terminò per il mancato invio dei rinforzi da parte del generale Clary e i nostri furono costretti a ritirarsi nel forte per il numero preponderante degli assalitori. Nello scontro i soldati duosiciliani, ebbero solo 120 caduti, mentre i garibaldini ne ebbero 780. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morì durante un assalto. Episodi di tradimento si ebbero anche in Calabria, dove nel paese di Filetto lo sdegno dei soldati arrivò tanto al colmo che fucilarono il generale Briganti, che il giorno prima, senza nemmeno combattere, aveva dato ordine alle sue truppe di ritirarsi. NAPOLI: il giorno 9 settembre arrivarono a Napoli i garibaldini. Mai si vide uno spettacolo più disgustoso. Quell’accozzaglia era formata da gente bieca, sudicia, famelica, disordinata, di razze diverse, ignorante e senza religione. Occuparono all’inizio Pizzofalcone, poi nei giorni seguenti si sparsero per la città, tutto depredando, saccheggiando ogni casa. Furono violentate le donne e assassinato chi si opponeva. Furono lordati i monumenti, violati i monasteri, profanate le chiese. Il giorno 11 il Garibaldi con un decreto abolì l’ordine dei Gesuiti e ne fece confiscare tutti i beni. Furono incarcerati tutti quei nobili, sacerdoti, civili e militari che non volevano aderire al Piemonte, mentre furono liberati tutti i delinquenti comuni. Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto quanto conteneva. Gli arredi e gli oggetti più preziosi furono inviati a Torino nella Reggia dei Savoia. Il filibustiere con un decreto confiscò il capitale personale e tutti beni privati del Re dal Banco delle Due Sicilie, che fu rapinato di tutti i suoi depositi. Napoli in tutta la sua storia non ebbe mai a subire un così grande oltraggio, eppure nessun libro di storia “patria” ne ha mai minimamente accennato. CAPUA, VOLTURNO, GARIGLIANO, GAETA: eliminati i generali traditori i soldati duosiciliani dimostrarono il loro valore in numerosi episodi. La vittoriosa battaglia sul Volturno non fu sfruttata solo per l’inesperienza dei nostri comandanti militari. In seguito, la vile aggressione piemontese alle spalle costrinse il nostro esercito alla ritirata nella fortezza di Gaeta, dove il giovane Re Francesco II e la Regina Maria Sofia, di soli 19 anni, diventata poi famosa con l’appellativo “eroina di Gaeta”, si coprirono di gloria in una resistenza durata circa 6 mesi. Gaeta non potè mai essere espugnata dai piemontesi, ma solo bombardata. Con la resa di Gaeta (13.2.61), di Messina (14 marzo) e di Civitella del Tronto (20 marzo), il Regno delle Due Sicilie cessò di esistere. I Piemontesi non rispettarono i patti di capitolazione e i soldati duosiciliani in parte furono fucilati, altri vennero deportati in campi di concentramento in Piemonte. Di questi soldati, morti per la loro Patria, oggi non c’è nemmeno una segno che li ricordi e non meritavano l’oblio cui li ha condannati la leggenda risorgimentale. PLEBISCITO: il giorno 21 ottobre 1860 vi fu a Napoli e in tutte le provincie del Regno la farsa del Plebiscito. A Napoli, davanti al porticato della Chiesa di S. Francesco di Paola, proprio di fronte al Palazzo Reale, erano state poste, su di un palco alla vista di tutti, due urne: una per il SÌ ed una per il NO. Si votava davanti ad una schiera minacciosa di garibaldini, guardie nazionali e soldati piemontesi. Il giorno prima erano stati affissi sui muri dei cartelli sui quali era dichiarato “Nemico della Patria” chi si astenesse o votasse per il NO. Votarono per primi i camorristi, poi i garibaldini, che erano per la maggior parte stranieri, e i soldati piemontesi. Qualcuno dei civili che aveva tentato di votare per il NO fu bastonato, qualche altro, come a Montecalvario, fu assassinato. Poichè non venivano registrati quelli che votavano per il SÌ, la maggior parte andò a votare in tutti e dodici comizi elettorali costituiti in Napoli. Allo stesso modo si procedette in tutto il Regno, dove si votò solo nei centri presidiati dai militari con ogni genere di violenze ed assassini.

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La resistenza duosiciliana

Proprio con la farsa dei plebisciti scoppiarono con grande violenza contro gli invasori piemontesi le prime rivolte, che si propagarono a macchia d’olio in tutto il Sud. Fu una vera e propria guerra che durò più di dieci anni ed in cui le truppe piemontesi compirono tanti delitti e tali distruzioni che non si erano mai visti in alcuna altra guerra. Le forze militari impegnate dai piemontesi furono di circa 120.000 uomini, ai quali vanno aggiunti 90.000 militi della collaborazionista guardia nazionale. Queste forze, verso il 1865, comprendevano circa 550.000 uomini, quanto gli Americani nel Vietnam. Dopo la resa di Gaeta intere zone della Lucania, della Calabria, delle Puglie e degli Abruzzi si erano liberate dei presidi piemontesi ed avevano innalzato i vessilli duosiciliani. I piemontesi nel ritirarsi compirono molte rappresaglie su civili inermi. Nell’aprile del 1861 si formarono le prime: grosse bande di partigiani comandati da Carmine Crocco, detto Donatello, Nicola Summa, detto Ninco Nanco, Domenico Romano, detto il sergente Romano, che liberarono centinaia di paesi. La reazione piemontese fu immediata. Interi paesi furono distrutti a cannonate e chi si opponeva all’occupazione veniva fucilato immediatamente. Significativo quanto avvenne il 14 agosto del 1861 a Potelandolfo e Casalduni, ove allo scopo di terrorizzare le popolazioni vi furono saccheggi, violenze, stupri e le case furono bruciate e completamente rase al suolo. Vi furono oltre un migliaio di morti. Alcuni furono trucidati nel modo più barbaro, con le teste mozzate poi esposte agli ingressi dei paesi come monito. I generali piemontesi, come Cialdini e tanti altri, furono dei veri e propri criminali di guerra. Lo Stato “italiano” ancora oggi li venera come eroi. Dai dati ufficiali piemontesi, non attendibili, nel solo 1862 i paesi rasi al suolo furono 37, i fucilati furono 15.665, i morti in combattimento circa 20.000, incarcerati per motivi politici 47.700, le persone senza tetto circa 40.000. Ma nonostante l’impari lotta di un popolo male armato e scoordinato, costretto ad una vita difficilissima nelle valli e tra i monti, la guerriglia diventò sempre più fiera, tanto che nel 1863 il Savoia valutò la possibilità di abbandonare i territori conquistati, ma poi il suo governo emanò la tremenda legge Pica che autorizzava fucilazioni immediate senza alcun processo. La repressione continuò più ferocemente. I Partigiani duosiciliani con velocissime incursioni attaccavano ovunque i rifornimenti militari, le colonne militari, distruggendo i collegamenti telegrafici e postali. Ma era una guerra impari e destinata all’insuccesso perché senza alcun aiuto esterno. Nel frattempo tutti i macchinari industriali utili erano stati trasferiti al Nord, il resto fu distrutto con determinazione e per cause belliche. L’Ansaldo di Genova, ad esempio, che era una piccola officina, nacque praticamente con i macchinari dello Stabilimento di Pietrarsa. Nel 1862 chiusero la maggior parte degli opifici tessili, le cartiere, le ferriere della Calabria, le concerie. Alle ditte lombardo piemontesi furono affidati i lavori pubblici da compiere nelle province duosiciliane. La solida moneta duosiciliana d’argento e di oro fu sostituita da quella cartacea piemontese. L’economia meridionale ebbe così un crollo verticale e la disoccupazione si aggiunse al dramma della guerriglia. Nel 1863 il debito pubblico piemontese fu unificato con quello di tutto il resto d’Italia. Il Sud “liberato” ne sopportò tutte le spese. Da quell’anno incominciò l’emigrazione, che in pochi anni diventò una vera e propria diaspora. A tutt’oggi sono emigrati dal Sud dell’Italia circa 20 milioni di persone che si sono sparse in tutto il mondo. Nel 1864 furono espropriati e venduti tutti i beni ecclesiastici e demaniali del Sud, il cui ricavato venne usato per il rilancio dell’agricoltura della Valle Padana. È di quell’anno lo scandalo delle speculazioni Bastogi nella costruzione delle ferrovie meridionali. Intanto in Sicilia, per catturare i renitenti alla leva, interi paesi venivano circondati e privati dell’acqua potabile. I renitenti trovati, oppure i loro parenti, venivano fucilati come esempio. Interi boschi furono bruciati perché i “briganti” non avessero più la possibilità di rifugiarvisi. Nel 1865 fallirono quasi tutte le fabbriche meridionali, perché senza più commesse. In quell’anno il carico fiscale venne aumentato dell’87%, ma il danaro così drenato fu tutto speso al Nord. Soprattutto quello tratto dall’agricoltura meridionale che finanziò le nascenti imprese industriali del Piemonte e della Lombardia. Nel 1866 anche in Sicilia si ebbero delle serie sommosse. Palermo fu ripresa dopo un lungo assedio da parte di migliaia di soldati piemontesi. Oltre ai duemila morti causati dalle cannonate, si ebbero poi in tutta la Sicilia, nel giro di circa una settimana, 65.000 morti per il colera scoppiato tra le truppe piemontesi. Diventarono sistematiche la pratica della tortura e le ritorsioni sulla popolazione inerme, con stragi di interi villaggi e la distruzione dei raccolti per affamare i paesi dove si trovavano i resistenti legittimisti. La guerra per la definitiva conquista piemontese, durata circa 10 anni, costò al Regno delle Due Sicilie oltre un milione di morti, 54 paesi rasi al suolo, 500.000 prigionieri politici, l’intera economia distrutta e la diaspora di molte generazioni. Il Piemonte ebbe il doppio dei morti che aveva avuti in tutte le sue sedicenti guerre d’indipendenza.

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Conclusioni

L’invasione piemontese del pacifico Stato delle Due Sicilie fu ben più di una semplice sconfitta militare e si può affermare che essa ha tanto inciso sulla nostra vita sociale ed economica che ancora oggi viviamo nell’atmosfera creata da quell’evento, dal quale sono nati tutti i nostri mali presenti. Gli effetti di una sconfitta militare, infatti, per quanto terribili, col tempo vengono sanati se il territorio e la popolazione non vengono annessi a quelli del vincitore. Per le Due Sicilie, invece, a causa della particolare posizione geografica, senza soluzione di continuità territoriale con il resto della penisola italiana, l’annessione ha prodotto effetti così devastanti che la coscienza del popolo stesso ne è stata alterata. La storia più che millenaria del Sud, ricca di immense glorie e di immani tragedie, prima dell’occupazione piemontese era stata la storia di un popolo che non aveva mai perso, nel bene e nel male, la propria identità nazionale. E’ stata, dunque, questa perdita, causata dalla forzata unione con gli altri popoli della penisola; il più grave danno inferto al Popolo Duosiciliano. Il Regno delle Due Sicilie proprio nel 1860 si stava trasformando in un grande Stato moderno. C’erano tutte le premesse, perché allora era una tra le più progredite nazioni d’Europa, ma la delittuosa opera delle sette che governavano la Francia e l’Inghilterra e la sete di conquista savoiarda ne distrussero i beni e le tradizioni, compiendo un vero e proprio genocidio umano e spirituale. Come fu precisato da Lemkin, che definì per primo il concetto di genocidio, esso “non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…. esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali…… Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui… non a causa delle loro qualità individuali ma in quanto membri del gruppo nazionale”. Si dice, inoltre, che vi sono due metodi per cancellare l’identità di un popolo: il primo, quello di distruggere la sua memoria storica; il secondo, quello di sradicarlo dalla propria terra per mischiarlo con altre etnie. Noi Duosiciliani abbiamo subito entrambi i soprusi, ma fortunatamente, per la nostra storia di quasi tremila anni, il nostro inconscio collettivo ci ha salvati in parte dalla distruzione della nostra identità nazionale. La principale causa del crollo delle Due Sicilie va, senza dubbio, inquadrata nel marciume generato dalla corruzione massonica. Esso era dappertutto: nelle articolazioni statali, nell’esercito, nella magistratura, nell’alto clero (fatta salva gran parte dell’episcopato), nella corte del Re, vera tana di serpenti velenosi. Infatti, come ha esattamente analizzato Eduardo Spagnuolo: “addebitare ai piemontesi le colpe del nostro disastro e’ vero solo in parte e contrasta anche con i documenti dell’epoca. La responsabilità della perdita della nostra indipendenza e della nostra rovina è per intero della classe dirigente duosiciliana, che si fece corrompere in ogni senso. Non a caso le bande guerrigliere più motivate, come quella del generale Crocco e del sergente Romano, si muovevano per colpire, innanzitutto, i collaborazionisti e gli ascari delle guardie nazionali”. L’opposizione armata, tuttavia, fu soltanto un aspetto della più vasta resistenza all’invasione piemontese, perché la resistenza si sviluppò per anni in modo civile. Numerose furono le proteste della magistratura e dei militari, le resistenze passive dei dipendenti pubblici e i rifiuti della classe colta a partecipare alle cariche pubbliche. Moltissime le manifestazioni di malcontento della popolazione, soprattutto nell’astensione alla partecipazione ai suffragi elettorali, e la diffusione, ad ogni livello, della stampa legittimista clandestina contro l’occupazione piemontese. Mai, nella sua storia, lo Stato delle Due Sicilie aveva subito una così atroce invasione. Quante ricchezze, inoltre, furono distrutte insensatamente, che avrebbero potuto fare veramente grande l’Italia. L’economia dell’Italia meridionale, poi, ebbe un crollo verticale non solo perchè il centro propulsore fu spostato al Nord, che ne venne privilegiato, ma anche perché la concezione dogmatica del liberoscambismo imposto dal Piemonte, impedì in seguito di porvi dei ripari. Il miope colonialismo dei piemontesi, come poi si rivelò l’occupazione dei “liberatori”, divenne una vera e propria tragedia, che dura ancora ai nostri giorni e che solo il conciliante e forte temperamento della gente del Sud ha impedito che divenisse una catastrofe irreversibile. Gli abitanti delle Due Sicilie furono usati, prima come carne da cannone per le altre guerre coloniali dei Savoia, poi come mercato per i prodotti delle industrie del Nord e come serbatoio di voti per quei ciechi politici meridionali, spesso solo servi sciocchi delle lobby del cosiddetto “triangolo industriale”. La classe dirigente meridionale, inoltre, allo scopo di conservare piccoli vantaggi domestici, ha fiancheggiato sempre tutti i governi che si sono avvicendati in Italia dall’inizio dell’occupazione, governi che pur definendosi “italiani”, hanno curato solo e sempre gli interessi di alcuni, i quali per questo mantengono eterna la ” questione meridionale “. Il Popolo delle Due Sicilie, in tutta la sua lunghissima storia, non ha mai fatto una guerra d’aggressione contro altre genti. Ha dovuto, invece, sempre difendersi dalle aggressioni degli altri popoli, che lo hanno assalito con le armi o con le menzogne. Ancora oggi dal Nord dell’Italia, per una congenita ignoranza, alimentata continuamente dalla propaganda risorgimentale avallata dallo Stato “italiano”, siamo ancora puerilmente aggrediti con violenze verbali, con luoghi comuni sui “meridionali”. Nella considerazione di tutti gli avvenimenti succedutisi dopo il 1860 fino ad oggi si può senza dubbio affermare che proprio a causa di quel violento movimento nato nel Nord, il cosiddetto “risorgimento”, si originò un processo autodistruttivo, che, passando attraverso continue guerre, per lo più suggestivamente etichettate, culminò nel fascismo, che, con la sua fine, ridusse a una sciatta repubblica tutta la penisola italiana, così ricca di valori prima del “risorgimento”. I Duosiciliani veraci, tuttavia, sanno di far parte di un paesaggio unico e inconfondibile, sanno che il loro animo immutabile e viscerale, proprio per questo, dovunque si troveranno, si porteranno sempre dietro questa loro contraddizione: quella di essere diventati forzatamente “italiani”.Breve sintesi storica

Nel 1130, notte di Natale, con una fastosa cerimonia Re Ruggero II sancì a Palermo la nascita del Regno di Sicilia. Tutto il Sud fu unificato come nazione indipendente con capitale Palermo. Quel 25 dicembre è una data simbolica: Ruggero II si presentava come il redentore di tutte le popolazioni del Sud della penisola dagli Arabi, dai Bizantini e dai Longobardi e nello stesso tempo annunciava al mondo la nascita di un regno cristiano. Questa unità durò più di 700 anni fino al 1860, quando, a causa dell’invasione piemontese, le popolazioni duosiciliane perdettero la propria identità nazionale con la forzata unione con gli altri popoli della penisola. Il governo normanno durò fino al 1194. Poi vi fu quello degli Svevi, il cui più illustre rappresentante fu Federico II. Con l’avvento degli Angioini nel 1266 la capitale del Regno di Sicilia fu portata a Napoli. A seguito dei “vespri siciliani” del 1282 la Sicilia fu occupata dagli Aragonesi e divenne Regno di Trinacria. Nel 1443 gli Angioini dovettero cedere agli Aragonesi anche la parte continentale del Regno: le Due Sicilie furono riunite con Alfonso il Magnanimo (Regnum utriusque Siciliae). Nel 1503 il Regno fu incorporato dalla Spagna, come vicereame autonomo; così come avvenne nel breve periodo austriaco, che va dal 1707 al 1734, anno in cui tutta la Nazione diventò nuovamente indipendente con i Borbone. In questa breve sintesi tralasceremo i pur importanti avvenimenti del periodo relativo ai primi Borbone: Carlo, Ferdinando I e Francesco I. Ricordiamo comunque che nel 1815 Ferdinando I unificò il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia in un unico stato che fu chiamato Regno delle Due Sicilie. Fondamentali per la vera ricostruzione storica dell’unità d’Italia sono il periodo di regno di Ferdinando II, e quello del giovane Francesco II. Sui Borbone sono stati raccontati moltissimi aneddoti, per lo più tendenti solo a denigrarli allo scopo di ingannare l’opinione pubblica e di giustificare l’aggressione al Regno delle Due Sicilie. Indubbiamente la nazione duosiciliana, contrariamente a quello che ancora oggi si continua a leggere nei libri di storia, acquistata nuovamente la sua indipendenza, ebbe con i Borbone il suo periodo più splendido e più significativo. Eppure la storia è stata a tal punto mistificata che ancora oggi “borbonico” è sinonimo di inefficienza e di retrivo. Molti scrittori, inoltre, hanno raffigurato la situazione dei Territori Duosiciliani “dopo” che vi era stata la devastazione piemontese, attribuendo all’amministrazione borbonica le pessime condizioni sociali ed economiche in cui erano state ridotte le Due Sicilie a causa dell’aggressione savoiarda. Il fatto più spregevole è che tali menzogne, pervicacemente avallate da uno Stato che si definisce “italiano”, cioè di tutti i popoli della penisola, sono insegnate come storia ufficiale ai nostri figli, i quali si formano in un culto che, non solo non è il nostro, ma che è stato creato proprio contro di noi Duosiciliani. Ma la storia, come si vedrà in seguito, è soprattutto narrazione di avvenimenti, che nella loro materiale concretezza non possono essere più di tanto mistificati o nascosti.

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Situazione sociale ed economica delle due Sicilie

Il Reame aveva praticamente due amministrazioni: quella delle province napoletane che comprendeva tutte le regioni continentali dagli Abruzzi alle Calabrie e quella siciliana. Nel 1860 la popolazione del Regno delle Due Sicilie era poco più di 9 milioni di abitanti. Il Regno in quell’anno poteva sicuramente essere considerato in campo economico al primo posto in Italia ed al terzo in Europa. La moneta circolante nelle Due Sicilie era pari a 443,2 milioni di lire, risultante oltre il doppio di tutte le altre monete circolanti nella penisola italiana. Per fare un paragone si può considerare che il Piemonte possedeva solo 20 milioni di lire. Questo era stato il risultato di previdenti leggi che avevano regolato le importazioni e le esportazioni proprio con lo scopo di favorire la nascita dell’industria, dosando opportunamente i dazi doganali e le misure fiscali. Infatti già dal 1818 l’industria tessile (seta, cotone e lana) e quella metalmeccanica erano i due principali settori trainanti dell’economia duosiciliana, tanto che molti stranieri trovarono conveniente investire nel Regno. La politica industriale era stata insomma lungimirante e coerente, anticipando di un secolo in Italia la formula dell’iniziativa pubblica nell’industria senza peraltro privilegiare le industrie statali che erano sempre in concorrenza con le private. Lo sviluppo industriale del Regno delle Due Sicilie, cioè il trasferimento di risorse dal settore agricolo al settore industriale; non avvenne infatti per opera di privati come negli altri Stati (grossi proprietari terrieri, come in Inghilterra, o Banche, come in Germania), ma per diretto intervento dello Stato, che tuttavia venne anche coadiuvato da imprenditori privati con capitali agrari, commerciali, bancari e di paesi esteri. Per quanto riguarda il territorio continentale, nel 1860 gli addetti alle grandi industrie erano 210.000 in quasi 5.000 opifici e costituivano circa il 7% della po